L’azienda Pojer e Sandri nasce nel 1975 in un periodo con pochi riferimenti e in una zona considerata di “basso potenziale” (dicevano) grazie all’unione di forze e di intenti dei due soci (Mario Pojer e Fiorentino Sandri) che iniziano con 2 ettari, qualche contenitore di cemento e i suggerimenti del compagno di banco di Mario, un “tale” Jermann friulano.
Oggi con circa 30 ettari tra la Valle dell’Adige e la Val di Cembra, 200.000 bottiglie di vino l’anno per una ventina di etichette, sono riferimento strutturato non solo in Trentino dove lavorano e producono ma su tutto il territorio nazionale grazie ad uno straordinario equilibrio tra dinamismo innovativo e rispetto della tradizione territoriale ma nel senso più vero e profondo. Mi esprimo così in quanto il binomio tradizione-innovazione è l’abusato claim del mondo del vino con il quale si intende comunicare che l’azienda è avanzata tecnologicamente, quindi in grado di produrre vini sani e corretti ma – allo stesso tempo – non è industriale; un concetto su cui spesso fa leva il marketing aziendale senza però coglierne il vero significato, quello espresso – al contrario – dai soci Pojer e Sandri.
Più precisamente: per “dinamismo innovativo” mi riferisco al continuo fermento che vive e ha sempre alimentato questa azienda nell’intento continuo di perfezionare la produzione: dal lavaggio delle uve che fu argomento di rottura e continua ancora oggi a far parlare, alla continua selezione di lieviti indigeni per esempio per gli spumanti, o alla messa a punto di macchinari tutti pensati e progettati “in casa” incluso un impianto di distillazione personalizzato; sì, perché Pojer e Sandri vanta una produzione interna estremamente interessante di distillati: grappe, acquaviti di frutta e un brandy tutto italiano.
Ma allo stesso tempo si percepisce quella che io definivo “rispetto della tradizione territoriale” che, in sostanza, non è una visione romantica della tradizione fine a sé stessa, proprio perchè parliamo di una delle aziende più dinamiche che non potrebbe appiattirsi su nostalgici approcci anacronistici. Mi riferisco soprattutto a una interpretazione del territorio che la tradizione non fa altro che riflettere. Un esempio pratico: fermo restando che qualsiasi integralismo di sorta sarebbe quantomeno da approfondire e che potremmo discutere a lungo su questi nuovi fenomeni legati al vino “naturale” (già di per sé è una contraddizione in termini) o semplicemente delle conduzioni biologica o biodinamica; se Mario Pojer decidesse di adottare una conduzione biologica nei suoi vigneti, si troverebbe obbligato a trattamenti su pendenze decisamente importanti e magari in momenti difficili (es. a seguito di piogge) che comporterebbero gravi rischi per chi li andrebbe a svolgere o per evitare i quali – probabilmente – non sarebbero nemmeno svolti nella maniera più adatta e quindi che senso avrebbe? Infatti, quando incontri Pojer e Sandri ti accorgi di quanto tutte queste teorie perdano di importanza rispetto ad una piena coscienza e consapevolezza del proprio territorio e relative esigenze. Del mio incontro con Mario Pojer, infatti, mi ha colpito questa totale consapevolezza e piena competenza rispetto a territorio, tecniche e materie. Un elemento che potrebbe sembrare ovvio: si presuppone che tutte le aziende abbiano profonda conoscenza del proprio territorio e relative potenzialità ma purtroppo non è sempre così.
Questo è Pojer e Sandri. Ancora prima di discutere dei vini di qualità e personalità che tutti conosciamo.
Siamo in un territorio, con fulcro a Faedo (paese del 1100 che si sviluppa attorno alla ricchezza mineraria), che presenta 3 punti di forza:
- stratificazione dei terreni di grande ricchezza con porfido, werfen e dolomie (visibili ad occhio nudo se si visita il canyon Bletterback, patrimonio Unesco)
- una valle aperta
- l’Ora del Garda che rinfresca.
A questo punto in una cantina su 5 livelli e tutti gli accorgimenti possibili per massimizzare il lavoro fatto in vigna si procede ad una produzione inevitabilmente ampia data la diversificazione che le singole parcelle consentono.
Ecco i vini degustati:
- “PALAI”, Müller Thurgau 2017
Vino di montagna affilato e sottile, sobrio e sapido.
- “ZERO INFINITO” (con fondo) da varietà resistente Solaris
Naso potente, esotico con erbette con un profumo e un gusto di spremuta di pompelmo rosa che persiste. Succoso, ricorda il sidro di mele.
- CUVEE 13-14. Extra Brut (40 mesi sui lieviti)
Naso intenso e fine, maturo con note di mela, bergamotto, cipria. Al gusto è cremoso ed elegante, la freschezza è piena ma mai tagliente
- BRUT ROSE (20 mesi sui lieviti)
Fragoline, acqua di rose, radice di liquirizia e fumo al naso. In bocca è pieno ma elegante
- NOSIOLA 2017
Un vitigno locale raro (più noto nella sua versione dolce) che si esprime subito con note floreali, pesca bianca e un tocco minerale. Secco, appagante e fresco al contempo, sapido.
- RIESLING 2017
Dopo la fermentazione in acciaio matura in botti di acacia usate.
Pesca quasi sciroppata, balsamico, ottima la trama, teso e intrigante.
- CHARDONNAY 1982
Un regalo di Mario che ho apprezzato particolarmente. Il vino è molto avanti ma riesce a mantenere in vita una trama aromatica non indifferente: al naso offre note di grano, ananas fermentata, mela cotta, zafferano e tocco di kerosene. Nocciola, yogurt e tartufo. Noce tostata sul finale.
- VIN DEI MOLINI 2017
Il vino della svolta grazie all’articolo di Veronelli su Panorama, un vino che fu di rottura per freschezza. Prodotto da Rotberger (incrocio tra Schiava e Riesling Renano ottenuto nel 1939).
Rosa con riflessi ramati. Fine e complesso al naso con note di rosa, cassis, lampone, sanguinella. Pieno, salato, equilibrato al palato.
- PINOT NERO 2017
Vino d’annata, 5 mesi di legno, vigne vecchie (in via di sostituzione col clone borgognone recentemente selezionato) e vigne giovani non adatte alle riserve.
Vino immediato, fruttato (ciliegia) e vagamente terroso. Fresco, da bere rinfrescato appena.
- RODEL PIANEZZI, PINOT NERO 2015
Ottenuto dai primi cloni francesi e un po’ di vigne vecchie. Un vino che raggiungerà il suo equilibrio e la sua piena espressività fra qualche anno quando la sostituzione di piante sarà completa. Viola, mirtillo, legno di cedro al naso. Armonico, godurioso, elegante, coerente, ottimo potenziale di invecchiamento.
- ROSSO FAYE 2013
Cabernet Sauvignon 50%, Cabernet Franc-Merlot-Lagrein per il restante 50%.
Il vino più rappresentativo. Al naso arriva subito il Cabernet con un tocco di china poi frutti neri e radici, compatto. Gusto pieno, pulito, fresco, accogliente. In via di “sviluppo”.