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Dieci agosto e annata del ’74: Gaetano è di Castel San Giorgio (Sa) in bilico tra il pomodoro San Marzano, la tradizione per la pasta artigianale e la cipolla ramata di Montoro. Venendo da una famiglia di origini contadine è abituato da sempre alla cucina genuina: è cresciuto coi rituali tipici della vita di campagna, come le conserve di pomodoro, il pane fatto in casa e la vendemmia soprattutto: suo nonno lo immerse in un tino a quattro anni per fargli pigiare le uve e da allora gli è rimasto impresso il piacevolissimo odore del mosto che non è andato più via, neanche dopo aver smesso di fare il vino per consumo domestico, intraprendendo la vita di ramingo e marittimo.

Consegue sia il diploma di tecnico delle attività alberghiere che il diploma di aspirante al comando di navi mercantili, facendone due distinti mestieri: tra un imbarco e l’altro tornerà sempre nell’ambito ristorativo e, dopo essere diventato sommelier professionista AIS, si trasferisce in Repubblica Dominicana, ricoprendo il ruolo di assistant restaurant manager ed educatore del personale di sala tra Punta Cana, Boca Chica e Santo Domingo, approfondendo inoltre la sua cultura su rum e sigari. Di rientro in Italia continuerà a navigare tra vigneti e gastronomia, anche con trascorsi nella cruise industry.

Curioso lettore e appassionato ascoltatore delle storie degli altri come prima fonte di apprendimento, amante della musica a tutto tondo. Nuotatore e immersionista nonostante dica che per colpa dei ripetuti assaggi che non riesce più ad entrare nella muta subacquea. Per lui non è domenica senza ziti spezzati col ragù napoletano, ha un debole per il pesce più crudo possibile e le patate fritte tagliate a mano ma non ha ancora stabilito se gli piaccia di più il tartufo bianco o i funghi porcini.

Ha conseguito un master professionale in food & beverage management presso l’Accademia Nazionale delle Professioni Alberghiere a Roma. È diventato sake sommelier certificato tramite la Sake Sommelier Association nel 2017, collabora più fattivamente per Firenze Sake, azienda importatrice di sake artigianali, e divulga la cultura del fermentato scrivendo per Sake News e per Foodclub.

Gaetano oggi si occupa di consulenze, formazione e comunicazione per ristoranti e cantine, contribuendo a creare format che lo hanno portato a relazionare ed abbinare il vino a show cooking di personaggi come Heinz Beck; scrive da oltre dieci anni per Medirerranea Online, rivista di cultura e media partner del Concorso Mondiale di Bruxelles, in un articolo su Vitae ha spiegato la relazione tra il Vino e il Mare, che riesce ad incarnare in prima persona, collabora talvolta con Onas Review ed è prossimo a diventare maestro assaggiatore di salumi.

 

Innanzitutto Gaetano, com’è nata l’idea di diventare sake sommelier?

Ho sempre avuto sin da bambino una grande passione per la cultura giapponese a partire dai manga sino ai film di animazione di Hayao Miyazaki, credo come tutti quelli della mia generazione del resto. Crescendo mi sono avvicinato alle arti marziali e di conseguenza a letture come quella del libro dei cinque anelli di Miyamoto Musashi, in seguito ho imparato ad apprezzare anche altri generi letterari ed autrici come Banana Yoshimoto. È stato durante il mio primo viaggio da marittimo sulla motonave Giovanna Iuliano che ho messo piede per la prima volta in Giappone, visitando tre diverse località. Era il 2001 e non ero ancora diventato sommelier, figuriamoci conoscere il sake, però avevo già avuto i miei  trascorsi nella ristorazione e quindi ero molto legato al mondo dell’enogastronomia, cucina giapponese inclusa. Dopo quell’esperienza mi ripromisi che avrei continuato ad approfondire la mia conoscenza sulla cultura del Sol Levante, divenuta dal vivo ancora più affascinante. Dopo un lungo percorso nel mondo del vino, un percorso che tutt’ora non finisce mai di stupirmi e di farmi imparare cose nuove, ho deciso di acquisire altre matrici sensoriali tra cui il sake appunto. Il corso di sommelier certificato del sake quindi non è stato soltanto una maniera di tenere fede ai miei propositi culturali ma anche un ottimo pretesto per arricchirmi professionalmente ed essere più competitivo nel settore del food & beverage management. Infatti conoscere il sake significa avere uno strumento di lavoro in più rispetto all’ambito della degustazione e della comunicazione, della creazione di eventi, della consulenza rivolta ad un certo modello ristorativo ed allo stile di bere giapponese in costante crescita nel nostro Paese e non solo.

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Facciamo subito chiarezza, cos’è il sake e come lo classifichiamo

Intanto sarebbe il caso di precisare che sake è una parola generica che usiamo noi occidentali per definire ciò che vorremmo bere in alternativa al vino o alla birra e che in giapponese significa semplicemente alcol, piuttosto che l’alcolico che va per la maggiore in una data località: infatti il termine corretto è nihonshu, che letteralmente significa alcol del Giappone. Il nihonshu è un fermentato di riso e koji. Dalla varietà di riso selezionata e dalla sua levigatura, dalla scelta dell’acqua impiegata durante il processo fermentativo e dalla selezione dei lieviti, il risultato finale cambia già tantissimo. Tutti questi fattori, unitamente ad altre variabili come ad esempio la pressatura, la pastorizzazione e l’affinamento, magari in botti di legno di sugi o hinoki (tipi di legno maggiormente usati), influenzano le proprietà organolettiche del fermentato e quindi ne delineano lo stile. Una prima macro classificazione vede ad esempio la categoria dei futsu-shu e quella dei sake premium, rispettivamente i sake da tavola e quelli più pregiati, anche se, in realtà, a scanso di pregiudizi, tra i primi si possono trovare comunque delle piacevoli sorprese.

Cos’è, anzi cos’era, il sake da “masticazione”?

Questa domanda mi fa venire in mente un film di animazione del regista Makoto Shinkai intitolato “kimi no na wa” in cui si vede la protagonista produrlo in pratica. Il sake da masticazione non è altro che il sake ancestrale, meglio noto col nome di kuchikami no sake. L’antenato del sake era il prodotto della masticazione del riso effettuata da persone comuni nei villaggi o da giovani vergini, coinvolte nei rituali religiosi scintoisti. In pratica il kuchikamizake (o kuchikami no sake) nasceva grazie all’amilasi contenuta nella saliva, un enzima utile a idrolizzare e quindi a trasformare l’amido rilasciato dall’azione meccanica della lunga masticazione del riso in zuccheri, dopodiché veniva riversato dalla bocca delle sacerdotesse direttamente in contenitori di legno in cui, grazie ai lieviti presenti nell’aria, cominciava a fermentare. Il risultato finale prendeva anche il nome di doburoku, ossia di un sake torbido per via del suo aspetto lattiginoso e quindi non filtrato.

 

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Come hai già scritto più approfonditamente, qual è il contributo della cultura cinese rispetto alla nascita del sake?

Il sake è assolutamente un prodotto inventato dai giapponesi ma sicuramente la cultura cinese è stata complice della nascita di questo fermentato. Si consideri che la fermentazione casuale del riso è avvenuta con buona probabilità in Cina nei pressi del Fiume Azzurro attorno al V millennio a.C. anche se altre tesi vorrebbero che la scoperta fosse avvenuta tra il XVII e l’XI secolo a.C. in prossimità del Fiume Giallo. È bene ribadire che anche l’aspergillus oryzae, il fungo filamentoso che i giapponesi oggi chiamano koji-kin, è stato scoperto dai cinesi stando a delle antiche testimonianze letterarie. In effetti ci sono delle bevande alcoliche nate in Cina, come ad esempio l’huang-jiu, che si avvicinano molto al sake ma per risalire alle effettive origini del nihonshu bisognerà attendere fino al Periodo Yayoi: infatti è in questo impreciso arco temporale, databile tra il 300 a.C. ed il 300 d.C., che i cinesi importeranno la conoscenza sulla coltivazione del riso in Giappone, presupposto per l’invenzione del fermentato che nel tempo si è evoluto fino a diventare il prodotto che conosciamo oggi.

Caldo o freddo?

A questa domanda è innanzitutto la saggezza popolare tipica dei giapponesi a rispondere: se si ha freddo si beva sake caldo, se si ha caldo si beva sake freddo. Se viene servito del cibo caldo si beva del sake caldo, mentre se ci si trova di fronte a pietanze fredde berremo del sake freddo o comunque a temperatura ambiente. Naturalmente ci sono dei sake che si adattano a un range di temperatura variabile, dimostrando la loro flessibilità, mentre ce ne sono altri che vanno gustati freddi, come quelli che esprimono evidenti note floreali e fruttate.

È vero che l’Italia è il principale importatore di sake in Europa? E lo produciamo pure?

Affermativo per entrambe le domande. Da fanalino di coda l’Italia, con l’Expo di Milano del 2015, è diventa il primo Paese europeo per l’importazione di sake di qualità e questo anche grazie al coraggio ed alla lungimiranza di alcuni giovani imprenditori tra cui Giovanni Baldini, fondatore della neo-nascente Scuola Italiana Sake e storico selezionatore di nihonshu provenienti da piccole cantine a conduzione familiare. Attualmente c’è un ottimo piazzamento di prodotto soprattutto al Nord e poi verso le regioni centrali, ma reputo che molto presto ne vedremo delle belle anche in Campania, poiché l’interesse e la curiosità per il fermentato è sempre maggiore.

Per quel che attiene invece alla produzione di sake in Italia, o meglio di nihonshu, me ne guarderei bene dal chiamarlo così: nello stesso 2015 è nata la GI – Geographical Indication che ne tutela nome e origine quindi esclusivamente il territorio giapponese, scontato e lapalissiano dirlo, è l’unico posto da cui dovrebbe provenire il nihonshu, al netto degli altri paesi che lo producono, lo imitano e lo esportano. Tornando in Italia, invece, temo vi sia ancora tanto lavoro da fare per quanto negli ultimi tempi si stiano ottenendo degli ottimi risultati. Troverei più interessante valorizzare un italico fermentato di riso in chiave moderna e innovativa, sfruttando diverse cultivar di riso nostrano, piuttosto che scimmiottare un prodotto millenario.

Come il sake si distingue, da un punto di vista sensoriale, dal vino e quindi a quali gusti e quali abbinamenti va incontro?

Come dicevo, prima esiste una distinzione tra sake da tavola e sake di pregio. Senza entrare troppo nello specifico le più importanti categorie di nihonshu sono le seguenti: junmai e tokubetsu junmai, junmai ginjo e junmai daiginjo, honjozo e tokubetsu honjozo, ginjo e daiginjo… in realtà ne esistono molte altre come ad esempio i taruzake, i sake in barrique per intenderci. Dal punto di vista sensoriale il sake si presenta con una miriade di profumi e sapori che mutano rispetto anche alla più piccola variazione tra uno step produttivo e l’altro, dando vita a tutte le combinazioni possibili; volendo fare un parallelo col mondo del vino, potremmo dire che ne esistono di neutri, semi-aromatici ed aromatici, per quanto il profilo olfattivo del sake sia mediamente più delicato in termini di intensità e richieda maggiore attenzione per potersi rivelare. Quando facciamo riferimento al sake possiamo spaziare da un aperitivo glamour, pop e raffinato, ad un abbinamento dedicato per pietanza oppure a tutto pasto, oltre che ad una beva colta e meditativa persino. Ci sono sake virili e spigolosi oppure sake tondi e femminili ma il bello di questo fermentato, come dice un antico proverbio giapponese, è che non litiga mai col cibo… si pensi che contiene appena un quinto dell’acidità del vino, oltre ad un botto di aminoacidi e riconosciute proprietà salutistiche. Inoltre anch’esso ha un corpo suddiviso in parti dure e morbide, ma la vera chiave di volta per gli abbinamenti col sake è l’umami. Come tutti sappiamo l’umami è il quinto gusto, oltre ai quattro noti del salato, acido, amaro e dolce, lo ritroviamo oltre che nel nihonshu in tantissimi ingredienti della cucina giapponese ma anche nei pomodori secchi, nelle olive, nei formaggi stagionati e nella colatura di alici di Cetara e questo rende il match tra il fermentato e la Dieta Mediterranea davvero giustificato, avvincente e spettacolare.

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