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Il fatto che noi giornalisti utilizziamo un vocabolario a volte definito “fantasioso” per la descrizione di un vino è una pratica “osservata speciale” dai tecnici, i quali promuovono l’utilizzo di quelle codificazioni appositamente studiate perchè si possa utilizzare un lessico univoco nel corso di una degustazione.

In realtà, però, quando ci si trova a raccontare vini e produzioni ai non “addetti ai lavori”, il motivo per cui si adotta un tale gergo non è un vezzo nè un mero esercizio stilistico volto a mettere in mostra i muscoli. Al contrario. È un’esigenza volta a rendere meglio l’idea al consumatore meno esperto che potrebbe non comprendere appieno alcune espressioni codificate. Questa è la spiegazione più intuitiva ma c’è n’è un’altra, a mio avviso ancora più importante. Mi riferisco alla necessità di onorare ciascun vino grazie all’utilizzo di una formula che, seppur “fantasiosa”, potrebbe consentire una descrizione quanto più efficace.

Ecco una riflessione che scaturiva a seguito di una degustazione dei vini Valentini, azienda abruzzese di riferimento non solo sul territorio regionale ma su scala internazionale. Appena provato il loro straordinario rosato (Cerasuolo d’Abruzzo DOC 2017), mi sono resa conto che non avrei potuto adottare alcun termine già utilizzato per altri i vini: avrei sminuito una personalità così unica e irripetibile.

Lungi da me denigrare i codici che io stessa sfrutto al meglio e che ritengo indispensabili anche al fine di oggettivare quanto più possibile la valutazione di un vino. È una forma di linguaggio insostituibile in determinati contesti. A questa si affianca un ulteriore approccio: nell’ambito del giornalismo e – ancor più in generale – del racconto del vino è opportuno, oltrechè coinvolgente, trattare i vini per la loro propria unicità descrivendoli con termini specifici e differenziati.

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