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Un giovanissimo Elio Altare (oggi noto produttore piemontese di Barolo), scende nelle cantina del padre con una motosega e demolisce le vecchie grandi botti usate per l’affinamento del vino.

Ora noi possiamo “filosofeggiare” sulle ormai sempre più popolari etichette (ed è proprio il caso di dirlo) abbinate ai produttori di Barolo e cioè: “modernisti” (riferita a coloro che utilizzano le “moderne” barrique -contenitori di rovere da 225 L-  e che hanno apportato alcune modifiche alla produzione negli anni 80) e i “tradizionalisti” (i produttori che da sempre utilizzano botti di legno di grandi dimensioni e non solo). Oppure possiamo darci delle arie per dimostrare tutte le nozioni imparate al corso di sommelier e perdere ore col naso nel bicchiere, magari in controluce, comodi, dal divano di casa nostra. Ma qui stiamo parlando di qualcuno che a quel tempo viveva una condizione di miseria, in alcuni casi, e senza capirne il motivo dato che i vicini produttori di rosso, i fatidici francesi, trascorrevano le proprie vacanze in barca in Costa Azzurra, invece i nostri contadini (etichettateli come volete, i modernisti e i tradizionalisti) si spaccavano la schiena e basta in molti casi. Parliamo di un Elio Altare diseredato dal padre a seguito delle sue “operazioni” in cantina. Di una Chiara Boschis criticata dai suoi stessi collaboratori che, soprattutto quando in età avanzata, non riescono a condividere il sacrificio di grappoli lasciati a terra a favore di una riduzione delle rese (pratica volta ad aumentare la concentrazione dei grappoli che restano sulla pianta, per dirla in breve).Stiamo parlando di un gruppo di produttori (oltre alla Boschis e Altare, ci sono Rivetti, Voerzio e l’importatore Marco de Grazia)i quali, come mai era accaduto prima e altrove e forse non è accaduto più, sono riusciti a fare… squadra. ‘Squadra’: parola del vocabolario italiano nota ai più esclusivamente in ambito calcistico! Insomma una eventuale pecca di questo gruppo di giovani è averla sciolta la squadra. Cosa riconosciuta in un discorso ben più ampio dallo stesso Petrini (presidente di Slow Food e tanto altro).

Io invece sto parlando di quelli che “volevano fare il vino più buono del mondo” documentati magistralmente da Paolo Casalis e Tiziano Gaia in “Barolo Boys” (trailer), il documentario premiato in occasione del Torino Film Festival nell’ambito del DOC Wine Travel Food 2014 in collaborazione con il Gambero Rosso: il concorso che premia le migliori pellicole a tema alimentare. “Barolo Boys” si lascia vedere anche dai non addetti ai lavori e pone l’accento sulla rivoluzione che questi giovani produttori hanno portato nelle Langhe negli anni 80 con tutti gli oneri e gli onori che ne sono conseguiti.

orchestra

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La rivoluzione è stata quella di apportare una serie di novità insieme alla scelta della barrique francese ma non solo quella: si è passato ad esempio a ridurre le rese e vinificare separatamente i  cru; incontrando i gusti internazionali e conquistando i mercati americani finchè un giorno furono definiti “Barolo Boys” dal New York Times. Ma questo non piaceva al celebre produttore Bartolo Mascarello ad esempio che -come riportato dal documentario- si dichiara dispiaciuto del fatto che questi giovani siano andati in Francia ad imparare a fare il vino (Barolo) e non a caso noto per le dissacranti etichette: “No barrique – NO Berlusconi”. D’altro canto, come afferma Elio Altare, “cosa significa modernità? I miei figli utilizzeranno i miei metodi come … tradizione di famiglia, del loro padre”!

E così, con numerosi e contrapposti interventi di notevoli (ancor prima che noti) produttori di Barolo, il documentario ci racconta una storia affascinante con la partecipazione di Carlo Petrini e Oscar Farinetti,  per mezzo della voce narrante di Joe Bastianich, l’orchestra Gabetti di La Morra e tanti altri inclusa la squadra di calcio che nasce negli anni ’90 con lo stesso spirito rivoluzionario.

Senza risvegliare polemiche e dissapori ormai sopiti da tempo (come affermava lo stesso Giancarlo Gariglio di Slow Wine) la questione che mi pongo è: questi giovani “ribelli” sono riusciti a far conoscere il vino e quindi un territorio nel mondo, rischiando sulla propria pelle, con i propri mezzi. Il successo li ha resi vanesi? Come dice Marco de Grazia “beh è umano”. Che siano invece un esempio in tempi di crisi come questi? Avranno forse cavalcato una moda ma hanno avuto ragione su tante cose e i loro vini sono realmente di valore. E se oggi qualcuno di loro sta tornando a riacquistare qualche botte grande è nel semplice ordine delle cose, nella natura sperimentale del produttore o nell’ottica di ampliamento di gamma o forse, ancora meglio, per soddisfare le richieste più numerose di chi, avendo conosciuto il Barolo anche  grazie a questa rivoluzione, oggi si regala il lusso di approfondire i diversi metodi di produzione, precedentemente meno conosciuti nonostante le grandi firme di vini pregiati che un po’ tutti conosciamo.locandina 1

Ma come è possibile che invece di esultare per un successo raggiunto ci becchiamo tra di noi? I produttori e perfino i giornalisti; a volte sembra che ciascuno cerchi di dimostrare di sapere qualcosa in più dell’altro. Ora, ben venga discutere di quali stile e firma si preferiscano, ma se solo tutta l’energia messa nelle critiche la impiegassimo a raccontarci meglio…

L’incapacità di fare squadra è il nostro più grande limite in Italia ma potremmo iniziare smettendo di farci lotte interne e criticandoci a vicenda e convincendoci che non c’è bisogno di ‘fregare’ alcuno, dato che abbiamo tutte le carte vincenti per sfondare.

Lo dimostrano, per fare un esempio, i vini italiani -tanto per rimanere in tema- e i vincitori del concorso: oltre al documentario “Barolo Boys”, un delicatissimo cortometraggio  ‘Via tempio Antico’ di Michele Alberto Chironi che racconta la tradizione della lavorazione del pane in un paesino pugliese, senza dialoghi ma solo con i suoni e i rumori di quelle ore, di quelle operazioni. Vince, inoltre, il lungometraggio “In grazia di Dio” di Edoardo Winspeare, che racconta la storia di 4 donne le quali tornano alla terra essendo la loro attività di sartoria fallita a causa della concorrenza cinese: una storia di vera verità, senza un finale direi, un lungometraggio concreto, senza la pretesa di lanciare messaggi particolari ma con l’obiettivo di fotografare la realtà quella in cui il bello si alterna al brutto e viceversa.

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